L’antropologia è la scienza dei confini, la scienza dei confini dell’umanità. Come ha scritto Francesco Remotti, “l’interesse antropologico sorge e si determina, allorché vengono indagati i confini dell’umanità”.

In questo non c’è molta differenza tra l’antropologia fisica e biologica e quella culturale e sociale. La prima indaga i confini più esterni del continente uomo, volgendo la sua attenzione al limite tra noi umani e i nostri cugini Primati; la seconda è tutta all’interno del pianeta uomo, con le sue innumerevoli culture e società. Mentre l’antropologia fisica studia i confini tra ciò che è proprio dell’Homo sapiens e ciò che non lo è, la paleoantropologia si occupa del confine tra la nostra specie, unica sopravissuta, e le altre specie di Ominidi estinte.

L’antropologia culturale, invece, partendo dall’assunto che quella umana è una specie biologicamente incompleta e necessita della cultura per sopravvivere, studia tutte le forme culturali e sociali di umanità. Gli antropologi si interessano agli infiniti modi in cui gli uomini vengono “foggiati” dalle culture e dalle società, ricevendo una forma, un’identità, una visione della realtà.

Il rischio che l’antropologia ha sempre corso è quello di scambiare la nostra prospettiva di occidentali come la forma più alta ed autentica di umanità, una sorta di metro con cui misurare tutte le altre civiltà, con l’inevitabile razzismo – storico o scientifico – degli ultimi secoli.

Il riconoscimento della relatività della nostra visione del mondo è il punto di partenza per un vero interesse antropologico alle altre visioni del mondo e un formidabile antidoto a ogni visione razzista delle altre culture (2007)