Paradosso mediterraneo
Come affrontare le sfide del futuro? La popolazione mondiale contava 1,6 miliardi di persone all’inizio del 1900; oggi – dopo poco più di un secolo – siamo 7,3 miliardi. Secondo le più recenti previsioni verrà toccata quota 8,5 miliardi entro il 2030, 9,7 miliardi nel 2050 e 11,2 miliardi nel 2100 (rapporto Onu World Population Prospects). Per sfamare oltre 11 miliardi di persone bisognerà adottare un approccio molto diverso da quello utilizzato a metà del Novecento. “Bisogna passare dalla Rivoluzione verde – che tra gli anni ‘40 è70 ha aumentato la produzione in tutto il mondo ma con un impatto ecologico insostenibile – ad una intensificazione ecologica, a un mosaico di sistemi di piccola scala, sostenibili e rigenerativi, che consentano un aumento della produttività” (Rapporto ONU, 2013). Nel rapporto FAO sulla Biodiversità del 2010 si precisava che “I modelli alimentari sostenibili sono quelli con basso impatto ambientale che garantiscono la sicurezza alimentare, proteggono e rispettano la biodiversità.” Un’agricoltura e un modello alimentare che abbiano questi requisiti esistono. La dieta mediterranea, largamente incentrata sull’uso di piante, ha un impatto relativamente basso in termini ambientali, poiché necessita di minori risorse naturali rispetto alla produzione animale. “La dieta mediterranea è nutritiva, ben integrata nelle culture locali, sostenibile in termini ambientali e favorisce le economie locali” (Alexandre Meybeck, della FAO).
La dieta mediterranea non è un’acquisizione recente, ma il risultato della storia millenaria dei popoli che hanno vissuto in questo bacino; popolazioni e comunità locali hanno trasmesso di generazione in generazione il loro modo di vivere, il loro modo di mangiare e di coltivare la terra. Non dobbiamo, però, pensare a questo come a qualcosa di statico, di immutabile. Tutt’altro: le comunità del bacino mediterraneo hanno continuamente ricreato lo stile mediterraneo in risposta alle variazioni dell’ambiente e delle condizioni storiche. Per questo ancora oggi i cibi e le abitudini alimentari sono estremamente variabili. Ebrei, Fenici e Cartaginesi, Greci e Romani, Arabi, Bizantini e Ottomani, Spagnoli hanno introdotto e diffuso migliaia di coltivazioni e cibi che hanno reso così varia la cucina mediterranea.
Questo modello di alimentazione equilibrata e non restrittiva ha avuto il riconoscimento di patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 2010 e continua a ricevere conferme in ambito scientifico sia per la sostenibilità ambientale sia per il suo valore protettivo nei confronti delle principali malattie del nostro tempo. Il più vasto studio di popolazione degli ultimi anni sui rapporti tra dieta e salute – European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC) – ha confermato tutti gli aspetti salutari della dieta mediterranea “Evidenze di studi degli anni ’60 suggeriscono che la tradizionale dieta mediterranea potrebbe avere effetti benefici sulla salute, in particolare per le malattie cardio-vascolari. Una forte aderenza a questa dieta è associata alla riduzione di ogni causa di mortalità sia per le malattie cardio-vascolari sia per il cancro.” (British Medical Journal 4/2006).
Tutto bene allora? Assolutamente no. Le popolazioni mediterranee – compresa la nostra – si stanno sempre più allontanando da questo modello. Nel Libro bianco sulla dieta mediterranea (2015) la FAO, massimo organismo mondiale in tema di agricoltura e alimentazione, denuncia il “drammatico declino del salutare modello alimentare mediterraneo in tutta l’area mediterranea”. Potremmo chiamarlo il paradosso mediterraneo. Gli italiani e gli altri popoli mediterranei che progressivamente si allontanano da un modello alimentare, economico e ambientale che ha sempre garantito vita sana e sistemi alimentari sostenibili, preservando l’ambiente e favorendo i produttori locali. Il modello mediterraneo è entrato definitivamente nelle Università e nei libri di testo, ma rischia di scomparire dalle nostre case e dai nostri campi. Oggi solo il 10% delle colture tradizionali locali viene ancora coltivato nella regione del Mediterraneo, con conseguenze negative per la nostra salute, per l’ambiente e per la qualità della cucina. (3-2016)
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