Storia delle diete: anni ‘80 e ‘90
Penultima parte della storia delle diete, con i regimi alimentari degli anni ‘80 e ‘90. Nel 1981 uscì un libro che raccontava il forte dimagrimento – circa 30 chili – di Judy Mazel; fu subito un grande successo e diede il via alla dieta di Beverly Hills, dal nome del quartiere di Los Angeles dove vivono molte star del cinema che allora la adottarono. Nel regime di Judy Mazel – detto anche dieta delle combinazioni alimentare – si mangiava una solo gruppo di alimenti per volta: i primi 10 giorni solo frutta, la seconda decade alla frutta si aggiungeva mais e prodotti da forno; nella la terza decade, infine, si inserivano anche carne e pesce; dopo la seconda edizione del libro (1997, New Beverly Hills Diet) la Mazel ebbe abbastanza fondi da aprire una clinica privata. Il principio secondo il quale per assimilare correttamente il cibo servono gruppi di enzimi differenti – che potrebbero ostacolarsi in caso di errate combinazioni alimentari – è suggestiva, ma priva di qualsiasi fondamento scientifico. L’altra dieta famosa degli anni ’80 è la dieta del cavernicolo, uscita nel 1985 e abbastanza simile all’attuale paleo-dieta. Di questo regime, ancora oggi molto seguito, ricordiamo due aspetti critici; primo, ricostruire il menù giornaliero dei nostri antenati non è per niente semplice, dato che attraversano i millenni solo le ossa degli animali e alcuni semi; secondo, la composizione di tutto quello che si mangiava allora è molto diversa da oggi, poiché la domesticazione di piante e animali ha cambiato quasi tutto il cibo attuale.
Gli anni ’90 hanno visto venire alla luce due diete che hanno riscosso un notevole successo e sono ancora molto utilizzate: la dieta chetogenica (nella foto) e la dieta a zona. Il regime chetogenico, in realtà, risale agli anni ’20; nel 1994 è tornata alla ribalta negli USA grazie a un famoso produttore di Hollywood, Jim Abrahams, che riuscì a far curare con successo l’epilessia resistente ai farmaci del figlio al John Hopkins Hospital con una dieta chetogenica. Si tratta, pertanto, di un regime che nasce – negli anni ’90 – in ambito neurologico per una malattia verso la quale a volte i farmaci antiepilettici sono poco efficaci. L’utilizzo della chetogenesi come meccanismo dimagrante è, invece, legato alla drastica riduzione di carboidrati – non più di 50 grammi al giorno – con forte aumento dei grassi (dal 25-30% consigliato al 75-80%) come fonte primaria di energia; in tal modo si forza l’organismo – cellule nervose escluse – a utilizzare i grassi come fonte di energia, con conseguente produzione di corpi chetonici, che andranno smaltiti, in quanto tossici, attraverso i reni. Il sudafricano Tim Noakes, professore di scienze motorie e maratoneta, ha dato un consistente contributo al successo attuale della dieta chetogenica come regime per perdere peso. A questo proposito ricordiamo i tre aspetti critici delle diete chetogenetiche. Innanzitutto, sono regimi alimentari che richiedono menù non semplici da seguire, dato che appena si supera la quota minima di carboidrati, la chetosi si interrompe e riprende l’utilizzo energetico degli zuccheri. Il secondo limite è la difficoltà a proporla per periodi lunghi, superiori a due-tre settimane. L’ultimo aspetto negativo è la presenza di sintomi come nausea, alito cattivo (alitosi da acetone), crampi e stitichezza (da disidratazione), stanchezza e difficoltà respiratorie.
L’altra importante dieta degli anni ’90 è la dieta a zona, proposta nel 1995 dal biochimico statunitense Barry Sears. In questo regime le proporzioni tra i tre macronutrienti energetici – carboidrati, proteine e grassi – sono modificate per raggiungere uno stato fisico migliore. Rispetto alle indicazioni internazionali i carboidrati scendono dal 55% al 40%, le proteine salgono dal 15-20% al 30%, i grassi rimangono intorno al 30%. La riduzione del grasso corporeo in eccesso dovrebbe avvenire per il controllo dell’insulina, legata secondo Sears all’assunzione di calorie in eccesso provenienti dai carboidrati. La dieta a zona favorirebbe, inoltre, il rilascio di glucagone, antagonista dell’insulina, stimolato da una dieta povera di calorie e carente di carboidrati. Sulla “zona” possiamo fare almeno due osservazioni. La prima riguarda la regolazione dell’insulina: il suo controllo è sicuramente essenziale in qualsiasi regime alimentare, ma tutte le evidenze disponibili dicono che il suo eccessivo rilascio non dipende tanto dalla fonte di macronutrienti – carboidrati, amminoacidi o acidi grassi – quanto dalla loro quantità. Chi introduce troppe calorie, pertanto, qualunque ne sia la fonte, fa aumentare la produzione di insulina, con tutti gli effetti negativi. La seconda critica riguarda la mancata distinzione tra carboidrati complessi e zuccheri semplici, tra zuccheri naturali e zuccheri artificiali. Tutti i carboidrati sono considerati allo stesso modo, pur avendo impatti metabolici diversi. Gli scadenti prodotti industriali statunitensi a base di sciroppo di mais sono effettivamente nocivi per la salute, ma non possono rappresentare anche i carboidrati provenienti da legumi e cereali integrali. La dieta a zona e le altre diete iperproteiche non spiegano come mai le popolazioni che consumano molti carboidrati – come quella italiana – hanno tassi di obesità, diabete e tumori del tratto digerente molto più bassi degli statunitensi. Forse la qualità del cibo che mangiamo è più importante delle formule percentuali dei nutrienti. Intanto, alla fine degli anni ’90 l’obesità statunitense era passata dal 15% al 31%: in 20 anni era raddoppiata, nonostante il proliferare di diete, più o meno basate su evidenze scientifiche e studi di popolazione, gli unici elementi che dovrebbero giustificare la proposta di modelli alimentari. (segue)
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