Oltre 80 anni fa, nel 1939, una pediatra statunitense di Chicago pubblicò i risultati di un esperimento alimentare che mise in discussione le concezioni sul cibo di quell’epoca. Lo studio della dottoressa Clara M. Davis  si svolse in un orfanotrofio, trasformato in laboratorio, e vi parteciparono 15 bambini, figli di ragazze madri o di vedove in stato di povertà. Il progetto durò in totale sei anni. Ad ogni pasto veniva offerto ai bambini solo cibo fresco e non conservato; nessuno imponeva o suggeriva cosa mangiare; di ogni alimento fu registrata la quantità effettivamente mangiata. Alla fine dello studio tutti i bambini riuscirono a gestire la loro dieta in autonomia, rispettando i limiti degli standard nutrizionali dell’epoca. Lo studio dimostrò che era possibile mangiare correttamente grazie ai meccanismi di regolazione interna.  Da allora molte cose sono cambiate: negli anni ’80 l’obesità era intorno al 15% , adesso è quasi triplicata. Le cause non sono legate ad un improvviso indebolimento della volontà individuale dei cittadini statunitensi, ma alla diffusione del cibo ultra-processato, che rappresenta ormai il 60% dell’apporto calorico medio con punte del 70% per gli adolescenti (in Italia siamo al 18%, vedi foto). Piatti già pronti, patatine e snack, bevande zuccherate e altri cibi industriali  hanno stravolto quei meccanismi di regolazione interna che ci porterebbero a mangiare quello che ci serve, come i bambini della dottoressa Davis.

Il termine cibo ultra-processato è stato introdotto dal nutrizionista brasiliano Carlos Augusto Monteiro. Con i colleghi dell’Università di San Paolo a metà degli anni ’90 notò un forte aumento dell’obesità infantile e capì che era dovuto al minor acquisto di zucchero, sale, oli da cucina, riso e fagioli e all’aumento del cibo industriale. Monteiro e gli altri nutrizionisti svilupparono un sistema di classificazione alimentare chiamato Nova, oggi adottato dai ricercatori in tutto il mondo, nel quale il quarto gruppo –  l’unico da limitare fortemente –  è rappresentato dal cibo ultra-processato. Da tempo si discute se la dipendenza dal cibo ultraprocessato sia solo comportamentale – come il gioco d’azzardo – o se sia, invece, inquadrabile in quella legata all’uso di sostanze d’abuso.  Nei criteri per definire una dipendenza si parla di dipendenza in caso di “assunzione della sostanza sempre crescente“, “tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso” e “desiderio impellente della sostanza“. Soprattutto in riferimento all’ultimo criterio, molti studi hanno registrato in cima alle scale di valutazione della dipendenza cibi ultra-processati come cioccolato, patatine, biscotti e gelati. Le ricerche dell’Università del Michigan sottolineano, comunque, che non tutti i cibi ultra-processati danno dipendenza e che molte persone riescono a consumarli con moderazione, un aspetto che, però, vale anche per le sostanze stupefacenti, dalle sigarette alla cocaina. Il punto cruciale per definire una effettiva dipendenza da cibo ultra-processato è il criterio che parla di “uso della sostanza continuato nonostante la consapevolezza di avere un problema fisico o psicologico”. Il 43% degli Statunitensi sono obesi, un dramma sociale di portata biblica. La maggior parte di loro ha provato a perdere i chili di troppo con diete restrittive o con altri strumenti. Le percentuali di successo sono minime: quasi tutti i tentativi falliscono, come ben sanno le industrie di prodotti dimagranti (per le quali i dimagrimenti effettivi non superano l’1-2%  del totale).  Facendo un confronto con le sostanze stupefacenti, negli Stati Uniti il 90% della popolazione consuma alcol, ma la dipendenza riguarda il 14% dei consumatori, 1 su 7. Per chi consuma cibo ultra-processato il rischio di dipendenza – e di obesità – è molto più alto, come testimoniano le decine di milioni di persone in sovrappeso. Uscire da una dipendenza da cocaina, sigarette, alcol o da cibo ultra-processato è molto difficile, perché il consumo di queste sostanze comporta una fortissima stimolazione delle zone del cervello legate al sistema della ricompensa. Le scariche di dopamina – la moneta chimica di questa ricompensa – sono il motivo per cui si continua a ricercare piatti già pronti (che non sono cibo, pur essendo commestibili), sigarette o altre droghe. L’industria alimentare costruisce prodotti che possono dare dipendenza inserendo grandi quantità di carboidrati raffinati e grassi saturi, una combinazione che non esiste in natura, dove troviamo alimenti ricchi di zucchero (come il miele e la frutta) oppure di grassi (come alcune carni o la frutta secca), ma non di entrambi.  In conclusione ricordiamo l’impatto sanitario globale della cattiva alimentazione. Una meta-analisi di Lancet del 2017 ha collocato il consumo di cibo ultra-processato al primo posto come causa di morte con il 22% dei decessi, davanti a tabacco e ipertensione. Dovremmo, pertanto, cambiare l’atteggiamento colpevolizzante e accusatorio nei confronti di chi consuma questi cibi. Il problema non solo le persone, ma la loro relazione con un cibo che finora non era mai stato presente nella storia dell’umanità. Come nel caso del tabacco, bisogna spostare l’attenzione su chi produce cibo industriale,  provando a regolamentare – come si è fatto per le sigarette – qualcosa che porta prima a dipendenza e poi o a gravi malattie o – nel 22% dei casi – alla morte.