Agonismo e competizione
Agonismo e competizione sono due aspetti che hanno sempre caratterizzato il gioco e le gare sportive. La parola agonismo si rifà all’agōnè, la manifestazioni pubbliche – collegata a feste religiose – dell’antica Grecia in cui erano previste anche gare e giochi per la conquista di premi. Il valore etico e umano dell’agonismo – e della competizione – nel corso del tempo ha lasciato sempre più spazio a un altro tipo di agonismo, quello moderno, in cui diventa sinonimo di ricerca della vittoria con ogni mezzo possibile.
Lo storico olandese Johan Huizinga è stato il primo autore moderno a cercare una spiegazione culturale e teorica del fenomeno del gioco. Nel suo testo del 1938 Homo Ludens (in latino, l’uomo che gioca) Huizinga considera il gioco la principale forma di espressione della natura umana, con forti connotazioni culturali, aspetti rituali collegabili alla religione e, soprattutto, forti valenze simboliche. Il gioco sportivo come fenomeno sociale è ormai parte integrante della modernità e si presenta – secondo il sociologo tedesco Klaus Heinemann (1988) – in quattro principali tipologie: sport-spettacolo, sport competitivo, sport giovanile, sport amatoriale. Vediamo allora che tipo di agonismo e di competizione caratterizzano queste diverse dimensioni dello sport moderno. L’agonismo inteso come ricerca della vittoria a tutti i costi è senza dubbio la nota dominante degli sport miliardari come il calcio di alto livello, l’NBA di basket e altri sport di squadra e individuali (tennis, in particolare). Tutto lo sport-spettacolo e gran parte delle discipline olimpiche (sport competitivo) accettano questa ideologia: conta solo vincere, partecipare – senza primeggiare – è una sconfitta. Il problema dell’agonismo così inteso non sta certo qui. L’aspetto preoccupante è la sua diffusione nelle attività riservate ai giovani e ai giovanissimi e in quelle amatoriali. Soprattutto nel caso dello sport giovanile sarebbe importante ricordare agli allenatori del settore il loro ruolo prevalentemente educativo e formativo.
Qualche anno fa (1988) gli anglosassoni Small e Smith hanno sintetizzato in tre concetti un approccio adeguato alla competizione nello sport giovanile. Per prima cosa, vincere non è tutto, è sicuramente un obiettivo importante ma non deve mai essere l’unico. In caso di sconfitta nella competizione, non bisogna mai considerarla un fallimento personale o una minaccia al proprio valore come persona. Infine, il successo non è solo vincere ma soprattutto lottare per vincere; di conseguenza vittoria e successo non sono sinonimi: si può avere successo impegnandosi al massimo delle proprie possibilità anche senza ottenere la vittoria sportiva. Competizione e agonismo, pertanto, possono diventare una trappola, se non viene ribadito che nello sport – come nella vita – conta far bene, non arrivare primi: spesso anche un verdetto sportivo negativo può rappresentare un miglioramento della prestazione o aver, comunque, raggiunto un obiettivo stabilito. La competizione deve esistere nello sport, ma è rivolta soprattutto verso noi stessi ed i nostri limiti. L’altro, l’antagonista, deve sempre essere percepito come un con-corrente, mai come un nemico.
Sandro Donati è stato un importante allenatore di atletica italiano: sotto la sua guida i velocisti azzurri dominavano in Europa. In un’intervista di qualche anno fa, ha detto “deve cambiare il mondo degli allenatori e dei dirigenti che seguono i ragazzi”. Bisogna assolutamente eliminare la concezione di uno sport super-competitivo e senza regole, un modello che – dice Donati – “ha ormai contaminato anche l’attività sportiva dei bambini. Sono pochi quelli che un giorno diventeranno bravi ciclisti o bravi nuotatori, la maggior parte sono bambini normali che non hanno bisogno di una preparazione da adulti, ma soltanto di gioco, attività e varietà di movimento”. (2007)
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