La longevità è un privilegio della nostra e di poche altre specie; una lunga longevità oltre il periodo riproduttivo – da un minimo di 30 a oltre 40 anni – è ancora più rara, e ne beneficiamo noi, le orche e pochissime altre specie. Nelle orche – la specie meglio studiata in cui si conosce per certo l‘esistenza della menopausa – le femmine anziane hanno un importante ruolo nel gruppo e non rappresentano assolutamente un peso. Le matriarche orche, infatti, nei momenti di scarsità alimentare, prendono la guida del gruppo, sono depositarie di memoria ecologica e protettrici dei giovani. Come ha scritto qualche anno fa E. O. Wilson (2019) le donne anziane hanno contribuito alla vita sociale dei gruppi umani in due modi: da un lato tramandando ai giovani le loro conoscenze ecologiche e le loro tecniche di caccia, dall’altro accudendo i nipoti, mentre i genitori erano occupati in altre attività. Questo ci consente un parallelo importante: la menopausa non è un fallimento biologico, ma una strategia evolutiva. Stephen Jay Gould avrebbe definito questo fenomeno una exaptation, un exattamento: l’evoluzione che rielabora in modo creativo risorse disponibili, trasformandole in qualcosa di nuovo Le femmine anziane non più fertili, invece di rappresentare un problema – una bocca in più da sfamare – diventano una risorsa che dà vantaggi al gruppo che se ne può avvalere: un nodo di cura, un cervello sociale, un archivio vivente.

Alla luce di queste considerazioni, appare davvero anacronistico il fatto che nella nostra cultura ancora – in molti ambiti – prevalga un doppio standard dell’invecchiamento, positivo per i maschi e generalmente penalizzante per le donne. La maturità maschile è spesso celebrata come apice di autorevolezza e fascino intellettuale; quella femminile, al contrario, continua a essere filtrata quasi esclusivamente attraverso la perdita dell’immagine fisica, come se la giovinezza e la fertilità fossero l’unico metro di valore. Per molte donne invecchiare equivale a diventare invisibili. Questo doppio standard investe anche la sessualità oltre i 60 anni: accolta e talvolta ammirata negli uomini, ma ancora poco accettata e considerata nelle donne. Eppure molti studi riportano che la maggioranza delle donne della fascia 60-69 anni mantiene una vita sessuale attiva, che cambia nei modi e nella frequenza, ma non scompare. La qualità della relazione, il partner e la salute fisica restano ovviamente fattori chiave, e continuano a modellare l’intimità.

A contrastare la scarsa visibilità novecentesca delle donne mature sta prendendo spazio un rinnovamento culturale importante. La letteratura – basti pensare alla Nobel Annie Ernaux con Gli anni – e soprattutto il cinema degli ultimi anni stanno restituendo visibilità al corpo femminile maturo come spazio di desiderio autonomo, non subordinato allo sguardo maschile. Film di ottima fattura hanno presentato un corpo nudo e sensuale di molte attrici affermate sessantenni: Emma Thompson (Il piacere è tutto mio della regista Sophie Hyde), Valeria Golino (Fuori di Mario Martone), Demi Moore (The substance della regista francese Coralie Farget). Sono tre esempi che affermano il diritto delle donne ad essere sensuali e visibili, a prescindere dall’età. In questo percorso, Gloria (2018) del regista cileno Sebastián Lelio resta una pietra miliare. Paulina García riesce ad offrire al personaggio di Gloria il suo  corpo bello e imperfetto, vivo e vulnerabile, permettendoci di vedere una donna sulla sessantina che reclama il proprio desiderio, le proprie relazioni, la propria complessità. Gloria ci ricorda che il desiderio non è un attributo della giovinezza, ma una trama che accompagna tutta l’esistenza.(nella foto le locandine dei film Gloria e The Substance)