Gioco e apprendimento nei bambini
Gioco e apprendimento: spesso il gioco è la migliore fonte di apprendimento. Nei bambini il gioco sportivo, inteso come gioco strutturato, ha la stessa funzione del gioco tra i cuccioli. I bambini giocando imparano. Imparano, soprattutto, tre cose: imparano a conoscere il proprio corpo, provano schemi di comportamento, selezionano le strategie motorie e psicologiche migliori. Fino a 3 anni l’attività fisica dei bambini è finalizzata all’uso delle gambe: bisogna imparare a camminare – un’abitudine fondamentale per gli anni a venire – a correre, a saltare. All’inizio delle elementari vanno bene quasi tutti gli sport, purché bilaterali – per il tennis conviene aspettare qualche anno – e dando la preferenza a quelli di squadra, che aiutano i bambini a sviluppare capacità di relazione e di solidarietà. Perché possa assolvere questa fondamentale funzione, il gioco sportivo deve rispondere a due requisiti: deve essere divertente e coinvolgente. Sembra una banalità, ma si tratta di due concetti pochissimo condivisi da molti allenatori e operatori sportivi. Se si riesce a rendere divertente e coinvolgente l’attività sportiva, sarà possibile creare vere e proprie avventure per i giovani atleti che permetteranno loro di conoscersi, di conoscere i propri limiti e le proprie capacità. Nel gioco e nei giochi sportivi i bambini sono costretti a mettere in campo risorse fondamentali come creatività e capacità di formulare strategie. Nel lavoro con i giovanissimi ed i giovani la scelta dovrebbe, quindi, cadere in primo luogo su persone capaci di lavorare e di avere relazioni adeguate con atleti di queste fasce di età. Lo sport, anche quello agonistico, dovrebbe essere sempre un mezzo di integrazione, mai un motivo di esclusione. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza l’obiettivo è valorizzare tutti gli atleti, dedicando lo stesso tempo a quelli bravi e a quelli meno bravi. Ma non basta, bisogna anche mettere in discussione l’impostazione di molti, troppi istruttori sportivi: selezionare già da piccoli i futuri atleti per indirizzarli ad una pratica sportiva fatta soprattutto di agonismo. Ci si muove nella speranza di scoprire il campione in erba, preoccupandosi poco o niente di tutti quei ragazzi che a 12, 13 anni già abbandonano, spesso in modo definitivo, uno sport in cui per loro non c’è spazio. Secondo alcune ricerche svolte sia negli USA che in Europa, in quasi il 70% dei bambini che cominciano la pratica di uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), si presentano forme di abbandono entro i 12-13 anni di età. Sono soprattutto le figure adulte – i padri in particolare, ma non solo loro – che esercitano pressioni esagerate sulle prestazioni dei ragazzi, i quali, schiacciati dalle troppe attese nei loro confronti, preferiscono rinunciare. Le enormi potenzialità educative dello sport, quindi, non si realizzano mai in modo automatico. Se è vero che lo sport contiene nel suo DNA dei valori, delle norme e degli schemi comportamentali di valore educativo altissimo, è altrettanto vero che le diverse figure adulte che organizzano e gestiscono lo sport – i genitori, gli allenatori, i professori di educazione fisica, i dirigenti sportivi – possono quasi annullare questo potenziale.
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