Uscire dall’anonimato (con Facebook?)
Da molti recenti tragici episodi di cronaca viene in primo piano tra gli attuali adolescenti un problema spesso legato a famiglie e genitori. Mi riferisco soprattutto a quel fortissimo bisogno di uscire dall’anonimato che appare così diffuso, da sembrare “epidemico”, tra i giovani occidentali. Il filosofo Umberto Galimberti ha più volte segnalato come la nostra sia una società ormai quasi senza più legami affettivi e sociali. Viviamo in luoghi e situazioni nelle quali “a segnalarci agli altri sono i nostri ruoli e non più il nostro nome, dove i nostri volti non sono più riconoscibili perché a individuarci sono solo le funzioni che svolgiamo, e fuori di questo ambito nessuno più ci chiama, ci telefona, ci invita; allora il bisogno di esistere può assumere quelle forme estreme di rivendicazione della propria identità, dove si può giocare anche con la morte, perché la propria vita, che a nessuno interessa, è già avvertita come non esistenza, come di già imparentata con la morte”. Ritrovarsi “anonimi” significa che l’anonimato è già iniziato nel nucleo familiare. La famiglia, è – o dovrebbe essere – il posto dove i figli chiedono attenzione. Ma – dice Galimberti – ci può essere vera attenzione se non c’è tempo disponibile? Davvero crediamo che quello che conta è la qualità del tempo o si tratta di un luogo comune con cui ci giustifichiamo quando siamo intrappolati in una vita super-impegnata? Ai nostri figli – conclude Galimberti – serve una disponibilità che consenta loro di avere un’attenzione significativa e interessata, indispensabile per costruire dentro di sé un’identità riconosciuta. Quell’identità riconosciuta che, da adulti, eviterà loro un bisogno spasmodico di attenzione e forme incontenibili di protagonismo, spesso pericolosissime per loro e per tutta la società. Evitare l’anonimato a volte può voler dire finire all’eccesso opposto: siamo quotidianamente bombardati dalla descrizione di adolescenti consumisti, edonisti, sofisticati, malati di protagonismo. Eppure i giovani devianti sono una minoranza rispetto a quelli che lottano per la sopravvivenza degli ideali. Il neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea elogiava questa grande maggioranza di giovani “coraggiosi ed entusiasti della vita, dotati di quel giusto manicheismo adolescenziale che prima o poi saprà dare frutti positivi” e si scagliava, invece, contro il conformismo passivo, più difficile e da affrontare delle altre devianze poiché “non è reattivo ma rappresenta una forma di adattamento acritico alla realtà e si rivela più tenace e sottilmente ancorato alle abitudini quotidiane”.
Le parole di Bollea si riferiscono a un periodo storico di fatto ancora senza Internet. Oggi il problema dell’anonimato di massa – soprattutto, ma non solo, giovanile – ha creato le condizioni per il boom delle piattaforme social. Quando Mark Zuckerberg ha lanciato Facebook su Internet nel febbraio del 2004 per i suoi colleghi studenti di Harvard, in realtà ha intercettato un enorme bisogno di visibilità che in poco tempo ha decretato il successo della sua creazione. Il nome Facebook in inglese significa il libro dei volti: è, infatti, l’elenco – con nome e foto degli studenti – che le università statunitensi distribuiscono all’inizio dell’anno accademico favorire la socializzazione. Le pagine Facebook in un certo senso hanno svolto la stessa funzione: sono state un mezzo per sfuggire alla solitudine e uscire dall’anonimato delle tantissime persone che si sentivano dimenticate e trascurate. In questi anni non sono mancate le critiche a questo strumento social: per molti Facebook sarebbe un’esca per gli utenti, capace di generare una vera e propria dipendenza nonché un notevole veicolo di disinformazione. Tutto vero, ma Facebook ha ormai rivoluzionato le nostre vite, con milioni di utenti che vi accedono quotidianamente per condividere foto e poesie, pensieri e citazioni, giochi e vignette, video e collegamenti (link), ad altri video, eventi e ricorrenze. In un mondo sempre più virtuale, le piattaforme come Facebook saranno ancora per molto tempo l’unica possibilità di uscire dall’anonimato di massa, perché come ha scritto il filosofo Arthur Shopenhauer (Parerga e paralipomena, 1851, Adelphi): “Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi” (nella foto un’immagine con la scitta: Facebook, l’innovazione della solitudine?) (6-2010)
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