Vecchiaia e cultura
Vecchiaia e cultura, per migliaia di anni sono stati quasi dei sinonimi: chi era vecchio per definizione incarnava la cultura della comunità. Oggi le cose sono cambiate. Essere anziani, peraltro, non è solo un momento biologico, una stagione della vita: è anche qualcosa che appartiene alla cultura della società in cui si invecchia. Ogni cultura dà valore diverso alla vecchiaia; nella maggior parte delle culture tradizionali – africane e asiatiche, ad esempio – gli anziani sono tenuti in massima considerazione, sono le figure che devono tramandare i valori, le regole, le consuetudini. “Quando muore un vecchio in Africa, muore una biblioteca” dice un proverbio africano. Nelle società industriali e post-industriali, invece, gli anziani sono soprattutto visti come persone fuori dalla realtà lavorativa, quindi ai margini di quella che – a torto – si considera l’unica sfera sociale importante. In realtà, una vita sociale ricca e gratificante è possibile soprattutto dopo la stagione lavorativa, avendo più tempo a disposizione per dedicarsi alle relazioni con gli altri e agli interessi personali.
Verrebbe da chiedersi se ci consideriamo ancora una specie sociale. Naturalmente, è una domanda retorica: la nostra specie, Homo sapiens, è una specie assolutamente sociale: da soli ci si ammala, ci ammaliamo di malattie dello spirito non meno gravi di quelle fisiche. Abbiamo bisogno degli altri, come abbiamo bisogno del movimento, perché per milioni di anni – almeno sei – i nostri progenitori si sono uniti in gruppi per superare la nostra limitatezza biologica. Siamo animali davvero scarsi, presi singolarmente: non corriamo forte e non sappiamo lottare, abbiamo vista e udito appena sufficienti, non sappiamo sopportare le avversità né procuraci il cibo; insieme, invece, con la cultura e la dimensione sociale sopravviviamo piuttosto bene.
In molte ricerche la solitudine si trova spesso alla base di diversi stati di confusione mentale delle persone anziane. L’isolamento di molti anziani, per ragioni di reddito o per malattie croniche o semplicemente per scelta, può scatenare disturbi psichici. La televisione è nata oltre 50 anni fa come strumento culturale, anche per unificare un’Italia divisa in tante piccole nazioni che a stento si capivano; la televisione un tempo teneva insieme la gente, quando si andava tutti insieme nei bar (o nelle case dei pochissimi privilegiati che disponevano di una apparecchio personale) a vedere e commentare i primi programmi. Oggi la televisione – soprattutto per le persone anziane – rischia di essere una scusa per non uscire di casa, una scusa per non incontrare gli altri. Il protagonista dell’ultimo film di Ermanno Olmi (Cento chiodi del 2008, nella foto) – un Gesù moderno che molla tutto per andare a vivere con i contadini del Po – dice a un certo punto: “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico, una carezza”. Noi potremmo tradurlo con “Tutti i programmi televisivi del mondo non valgono una partita a carte, una risata con gli amici”. (2009)
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