I tabù alimentari sono sempre stati un importanti per capire le caratteristiche antropologiche delle popolazioni e delle loro culture. “Il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono.” scriveva nel 1825 Jean Anthelme Brilat-Savarin, il grande gastronomo francese. Verissimo. Lantropologia culturale, però, si domanda:perché le abitudini alimentari dei popoli cambiano nel tempo e sono così diverse? Perché alcuni popoli mangiano gatti e cani, mentre altri rifiutano la carne di mucca, di maiale o di cavallo? Per alcune popolazioni il latte e i suoi derivati sono da evitare, per altre lombrichi e cavallette sono una prelibatezza. Perché? La risposta – secondo gli antropologi che si rifanno al “materialismo culturale” – sta tutta nel binomio costi-benefici. In altri termini: i cibi ricchi di proteine animali vengono scelti o rifiutati dai popoli non tanto per il loro valore simbolico quanto per precise scelte nutritive e/o ambientali, mentre non sembrano esistere tabù alimentari legati ai cibi di origine vegetale e alle piante. E’ la tesi di fondo di Buono da mangiare” (1985) di Marvin Harris, caposcuola del materialismo culturale. L’esempio della “vacca sacra” indiana ci può illuminare. Gli agricoltori e allevatori Arii furono le prime popolazioni indiane induiste; dai testi vedici del periodo risulta che per loro era normale mangiare carne bovina. I bramini stessi, la più alta casta della società tradizionale indiana, nei primi secoli offrivano al popolo banchetti di carne bovina, una o due volte all’anno. Verso il 600 a.C. una serie di guerre, siccità e carestie fece drasticamente peggiorare la vita delle grandi masse contadine: nacque e si diffuse allora il Buddismo, religione contraria all’uccisione dei bovini. Secondo Harris, fu un semplice calcolo energetico a imporre il tabù verso la carne di vacca: se si fosse limitato il consumo della carne, sostituendola con latticini, cereali e legumi, si sarebbe potuto nutrire un numero maggiore di persone. Gli Indiani – dice Harris – smisero di mangiare carne bovina, perché capirono che per loro era più conveniente non mangiarla, quindi crearono il tabù alimentare religioso. I tabù alimentari, peraltro, spesso non sono assoluti, ammettendo eccezioni (che confermano la regola generale). Nel caso indiano, per alcune caste è ammesso – in certe circostanza – il consumo di carne di mucca. Un altro esempio interessante riguarda la quasi totale assenza di piatti a base di latte e formaggio nella cucina cinese. Nella storia della Cina l’allevamento dei bovini è sempre stato marginale; ancora oggi nel consumo di carne cinese i tre quarti sono costituiti da carne di maiale: inevitabile l’altissima percentuale di intolleranza al lattosio, che riguarda tra l’80 e il 95% della popolazione. Il passo successivo, stavolta, non è stato il tabù alimentare, ma una forte indifferenza nei confronti di latte e latticini, esclusi da tutte le otto grandi scuole gastronomiche del Paese (nota curiosa: con la globalizzazione è arrivato nelle grandi metropoli cinesi il gelato, unico alimento a base di latte in una società che lo considera più una secrezione che un cibo). Il terzo esempio di scelte alimentari legate ad alimenti di origine animale è il notissimo tabù alimentare dell’Islam per il maiale. Secondo Harris nel periodo storico in cui si stava diffondendo l’Islamismo in Mesopotamia il quadro ecologico era drammatico: da un lato l’ambiente naturale del maiale, il bosco, stava scomparendo, dall’altro la popolazione era in forte crescita. In quel contesto allevare maiali era particolarmente difficile: per il continuo bisogno di idratazione dei suini, reso problematico dal clima sempre più arido, e per il loro essere onnivori, ossia per il fatto che mangiano quello che mangiamo noi. In una situazione di risorse limitate i maiali di fatto utilizzavano le stesse risorse – alimentari ed idriche –  degli esseri umani; per avvalorare la scelta razionale di non allevarli, dice Harris, la cultura – attraverso la religione –  ha creato il tabù del maiale impuro e sporco (anche qui con le eccezioni di popolazioni dell’Africa Orientale di religione islamica che da secoli mangiano maiale). Gli esempi riferiti alla carne bovina, ai derivati del latte ed ai maiali, si possono estendere alla cacciagione, agli animali da compagnia e, persino, alle forme di cannibalismo. In conclusione, non è vero che non mangiamo ciò che non ci piace: in realtà spesso diciamo che non ci piace ciò che non possiamo mangiare. (3-2017)