Carestie e capitalismo
Oggi le carestie sono meno frequenti – e meno gravi in termini di vittime – rispetto al passato. Non sappiamo però, se – con l’aggravarsi del cambiamento climatico – saranno meno probabili in futuro. Oltre alle carestie scoppiate in Unione Sovietica e Cina, altre gravi crisi alimentari hanno colpito nel Novecento l’Europa, l’Africa e l’Asia. Negli anni ’40 del Novecento la II Guerra mondiale scatenata da nazisti e giapponesi ha provocato in Europa almeno 3 carestie ben documentate, legate all’occupazione nazista in Grecia (1941-42) e in Olanda (1944) e all’invasione dell’Unione Sovietica (l’assedio di Leningrado del 1944); analogamente in Asia l’occupazione giapponese di gran parte del continente ha fatto scoppiare la carestia del Bengala (1943) e quella del Vietnam (1944-45). La carestia del Bengala del 1943 fece oltre 3,5 milioni di vittime anche per l’inflessibilità del governo inglese – e del Primo ministro Churchill – nell’impedire che scorte di cereali provenienti da altre zone dell’Impero fossero dirottate per soccorrere le masse indiane (John Newsinger, Libro nero del colonialismo britannico, 2015). La carestia olandese dell’inverno 1944 fu causata da pesanti riduzioni delle razioni alimentari da parte dell’esercito nazista; una parte della popolazione, complice un inverno durissimo, soffrì gravemente le fame, scendendo ad apporti giornalieri di 500 calorie; la povertà di nutrienti sulle donne olandesi in gravidanza ha avuto una serie di effetti sulla generazione successiva (in particolare una maggiore incidenza di obesità e diabete) che hanno riguardato anche la seconda generazione, con meccanismi di tipo epigenetico. Negli anni ’60 del secolo scorso, dopo la carestia dell’India nel 1965-66, la prima dopo l’indipendenza, il mondo è stato scosso dalla carestia del Biafra. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie nel 2006 (Metà di un sole giallo) ha raccontato la storia tragica degli Ibo (o Igbo) che abitavano nella regione sud orientale della Nigeria e proclamarono la repubblica indipendente del Biafra, subendo un blocco economico di 3 anni che costò la vita a oltre un milione di persone, per lo più bambini, lasciati letteralmente morire di fame. Negli ultimi 50 anni si sono succedute la siccità del Sahel – un milione di morti negli anni ’70 e ’80 per i cambiamenti climatici – la carestia del Bangladesh – 25.000 morti nel 1974 per le gravi inondazioni e l’instabilità politica – le due carestie dell’Etiopia – nel 1973-74 e nel 1983-86, entrambe a cavallo di guerre civili – e, infine, la carestia della Corea del Nord negli anni ’90, per alluvioni, siccità e fine degli aiuti sovietici.
L’economista indiano Amartya K. Sen, Nobel per l’economia nel 1998, ha scritto un libro sulle cause delle fame e delle carestie (Fame e rapporti di scambio, 1977), facendo notare che la riduzione della disponibilità pro capite di cibo non spiega in modo soddisfacente le ondate di carestia nelle economie di scambio del capitalismo. I dati sula mortalità delle carestie dimostrano che solo alcuni gruppi sociali vengano colpiti e decimati; nella carestia del Bangladesh sono morti soprattutto salariati agricoli, pescatori e artigiani; in quella etiope degli anni ’70 sono morti prevalentemente servi agricoli e pastori; in entrambi i casi il vero problema è stato la diminuzione dei redditi da lavoro agricolo. Per Sen le cause delle carestie che si sono abbattute in Asia e Africa nel Novecento non vanno cercate nella mancanza di cibo, ma nelle disuguaglianze di reddito. Mentre milioni di persone morivano di fame in Etiopia e in Bangladesh, i loro Paesi hanno continuato a esportare alimenti. La fame non è quindi un fatto naturale e nemmeno una conseguenza di carenze tecnologiche, ma un fenomeno economico e sociale.
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