Domenica 17 aprile saremo tutti chiamati a votare il cosiddetto referendum sulle trivelle, (No Triv) per decidere la durata dei permessi per estrarre idrocarburi in mare entro 12 miglia dalla costa. Se il referendum raggiugerà il quorum dei votanti e ci sarà la vittoria del sì, le piattaforme piazzate oggi in mare a meno di 20 chilometri dalla costa – circa 90 strutture – verranno smantellate, una volta scaduta la concessione, nell’arco di circa 20 anni, senza poter sfruttare completamente il gas e il petrolio nascosti sotto i fondali. Non cambierà nulla, invece, per le circa 45 perforazioni oltre le 12 miglia, che proseguiranno la loro attività. Le 90 piattaforme interessate dal voto forniscono una piccola quota del fabbisogno energetico nazionale: meno dell’1% del fabbisogno di petrolio, circa il 3% di quello di gas (dati Legambiente). La nostra dipendenza dall’estero, pertanto, non verrà messa in discussione dall’esito del voto, che può, invece, diventare un importante strumento di pressione per cambiare radicalmente le attuali politiche energetiche.

Al vertice sul clima di Parigi 192 Paesi si sono impegnati a mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto i 2 gradi centigradi, possibilmente vicino a 1,5 gradi. Questo significa lasciare sottoterra – o sotto il fondale marino – buona parte delle riserve attuali di combustibili fossili per sostituirle con fonti rinnovabili e pulite (eoliche e fotovoltaiche); in questo senso l’Italia ha fatto molto: nel 2015 il 17,3% dei consumi nazionali di energia proveniva da fonti pulite, con una crescita di oltre 10 punti percentuali; negli ultimi due anni, però, stanno calando sia le installazioni eoliche sia quelle fotovoltaiche. L’altro aspetto del problema riguarda l’impatto ambientale delle energie fossili. L’estrazione di idrocarburi è storicamente un’attività inquinate, con un forte impatto ambientale e pesanti effetti sul territorio. L’esperienza storica di oltre un secolo e mezzo di industria estrattiva ha sempre ricalcato lo stesso schema: per le aziende minerarie grandi profitti e nessuna responsabilità sui danni ambientali provocati; per le popolazioni locali pochi vantaggi economici e danni permanenti al territorio. Danni nelle acque del mare e nella fauna marina, danni nel pescato e nei litorali. Per noi popoli del Mediterraneo questo significa avere oggi 38 milligrammi di catrame per metro quadrato sui fondali marini, il massimo inquinamento mondiale da petrolio, frutto di oltre 10.000 perdite accidentali (dal 1970 ad oggi), dal lavaggio delle cisterne in mare aperto, dall’enorme traffico di petroliere nei nostri porti.

Le circa 90 piattaforme sottoposte a referendum contribuiscono all’inquinamento marino in misura non trascurabile; nei ¾ dei sedimenti marini vicini alle strutture è presente almeno una sostanza chimica pericolosa (dati Greenpeace); quasi la metà delle piattaforme – 42 su 88 – non è mai stata sottoposta a valutazioni di impatto ambientale (VIA), essendo state costruite prima del 1986, anno dopo il quale la VIA è divenuta obbligatoria; l’età media delle piattaforme è un alto punto critico: il 48% ha oltre 40 anni e non è mai stata sottoposta a VIA; 8 piattaforme, infine, non sono operative: sono impianti obsolescenti inattivi, con rischi per la navigazione e impatto paesaggistico (dati WWF). Sembrano motivi più che sufficienti per andare domenica a votare al seggio e dire sì al  referendum: un sì per un futuro che punti decisamente sulle energia rinnovabili e sul risparmio energetico, un sì per la salute, per l’ambiente, per l’occupazione (aprile 2016)