Calcio-spettacolo o calcio-sport?  “Odio il calcio. Odio profondamente chi lo gioca, lo discute, lo compra, lo vende, lo commenta. Odio chi ne parla convinto che interessi a tutti” Così iniziava qualche tempo fa un’invettiva di Beppe Grillo sullo sport nazionale. Sul suo blog (ww.beppegrillo.it) si è aperta una discussione sui pro e i contro di questo sport-gioco-spettacolo-affare che è oggi il calcio, in Italia e nel mondo. La domanda, neanche tanto provocatoria, è la seguente: il calcio è ancora uno sport? Quanto resta di veramente sportivo nel gioco più diffuso del pianeta? Vediamo alcuni punti critici che hanno fatto allontanare dal calcio sempre più persone. Il primo aspetto inaccettabile il razzismo e la violenza negli stadi di una parte consistente dei tifosi del calcio, per lo più persone che non praticano più alcuno sport. Per contro, in altri sport di larga diffusione – come il volley e il rugby –  tifosi che sono anche praticanti possono tifare per la propria squadra, non contro l’altra, a fianco degli altri tifosi. Gli stadi italiani sono da molti anni diventati luoghi estremamente pericolosi e da anni accettiamo-  come fatto naturale – la militarizzazione delle città per le trasferte delle tifoserie violente.
Altrettanto inaccettabile appare la slealtà generalizzata dei giocatori, l’arte della simulazione, l’accusa di infamia per chi non simula o si comporta con correttezza con l’arbitro. Nella pallavolo non ci sono contatti fisici ma il rispetto dell’arbitro è generalizzato, anche quando sbaglia. Nel rugby i contatti sono durissimi, ma prevalgono la sportività, il fair-play, la lealtà verso gli avversari e verso l’arbitro. Tifosi e giocatori non sono necessariamente la parte peggiore del calcio. Gli arbitri danno il loro contributo con la sudditanza psicologica nei confronti delle società più potenti (Juventus, Inter, Milan nella serie A, ma anche nei campionati minori ci sono società più importanti della altre). Ma nel calcio nessuno aiuta gli arbitri. In quasi tutti gli altri sport viene costruita, fin dai primi anni, un cultura del rispetto per gli arbitri, che pertanto, sbagliano meno e non vengono quasi mai ritenuti responsabili delle sconfitte. Nel calcio, si comincia a insultare gli arbitri già nelle categorie giovanili. I giornali, le radio, le tv che seguono il calcio non sono da meno; da Sky alle radio e tv private è un tripudio di banalità e analfabetismo sportivo e, spesso, grammaticale. Si dice che il calcio è una delle 10 attività economiche più importanti. Alcune società si sono persino quotate in borsa. Quello che si vede è altro. Intanto il divario economico – sempre esistito ma ormai di proporzioni abissali – tra le società più ricche e quelle meno ricche, è tale per cui non si vedrà mai più un Gigi Riva che resta al Cagliari, nonostante le pressioni della Juventus, né uno scudetto al Verona di Bagnoli o al Cagliari di Scopigno.  Mentalità aziendalistiche e vittimistiche hanno ormai contagiato tutto l’ambiente: conta solo vincere, se non si vince è colpa dell’arbitro. Il calcio-mercato sempre aperto favorisce ancora una volta le squadre ricche, che possono rimediare in qualsiasi momento a difficoltà di gioco o di classifica; i tifosi sono ormai abituati a squadre senza nessun giocatore del vivaio, della propria città, senza nessun italiano (vedi l’Inter che domina, senza giocatori italiani, il nostro campionato da diversi anni). Ma c’è altro. C’è la corruzione di dirigenti, procuratori, arbitri, giocatori. C’è stato e continua ad esserci il calcio-scommesse, le partite truccate, i giocatori e le squadre che a fine campionato si fanno due conti per la stagione successiva. C’è un ultimo aspetto che rende da parecchi anni a questa parte davvero difficile appassionarsi al calcio; ormai il gioco è quasi del tutto rivolto alla distruzione delle iniziative avversarie. In altri sport di squadra si è costretti a costruire gioco, nel calcio no: se ci serve un pareggio, tutti in difesa, se si passa in vantaggio, tutti a perdere tempo fino alla fine della partita. Le squadre che giocano e divertono sono rare: dal Brasile al Camerun, dalla Corea al Portogallo, le squadre sono imbottite di eccezionali interditori, di incontristi superbi, di podisti da finale olimpica. Ma non si vedono più quelli che sanno inventare una giocata diversa, quelli capaci di un lampo di fantasia, quelli che ti fanno la cosa difficile a cui nessuno avrebbe pensato. Il fine carriera di Roberto Baggio, nel Brescia con l’altro grande Pepe Guardiola, e di Roberto Zola, rifiutato dalle squadre italiane e finito per necessità in Inghilterra, ci ricordano che il calcio che ci piaceva è finito.  Ci rimane il calcio giocato in mezzo alla strada, evocato da Stefano Benni nella Compagnia dei Celestini (nella foto il cartone animato tratto dal libro). Ci rimane il calcio tra amici, senza arbitro e senza punteggio preciso (“Quanto stiamo? Uno sopra noi!”). Ci rimane il calcio del Super Santos e delle figurine Panini. Ci rimane il calcio di “chi fa l’ultimo vince tutto”. Ci rimane il calcio dei bambini che eravamo e non siamo più. (2007)