La storia dei farmaci agenti sul sistema nervoso centrale è iniziata per caso, un classico fenomeno di serendipity, quando nel 1950 si scoprì che l’antistaminico clorpromazina aveva proprietà antipsicotiche ed era capace di attenuare alcuni disturbi tipici della schizofrenia, come le allucinazioni. Nel 1952 fu isolata la reserpina dalla Rauwolfia serpentina, pianta utilizzata da sempre nella medicina tradizionale indiana per disturbi mentali, febbre e morsi di serpente. Nel 1954 la reserpina iniziò a essere usata come antipsicotico, due anni dopo la clorpromazina. Da allora molte molecole sono state aggiunte e oggi la definizione di psicofarmaci comprende diverse classi di farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale. In Italia nel Prontuario Farmaceutico del 2000 erano presenti oltre 150 prodotti diversi, corrispondenti a circa 100 molecole con principio attivo diverso. Attualmente il numero di prodotti è sicuramente aumentato, soprattutto per la moltiplicazione di farmaci generici equivalenti. Gli psicofarmaci vengono generalmente suddivisi in quattro grandi categorie: ansiolitici-ipnotici, antidepressivi, antipsicotici (o neurolettici ) e stabilizzatori dell’umore.

All’interno di ciascuna categoria di psicofarmaci sono presenti classi di molecole (ad es. le benzodiazepine) con azione terapeutica simile, anche se in realtà non sembra scientificamente corretto parlare di un effetto terapeutico comune degli psicofarmaci, per la eterogeneità delle molecole li compongono e, ancor di più, per l’eterogeneità dei disturbi trattati. Tra i sostenitori convinti del loro uso ed i detrattori esiste una lunga e accesa polemica, iniziata negli anni ’60 quando l’uso di psicofarmaci è divenuto un fenomeno di massa. Un punto di ragionevole equilibrio tra i due atteggiamenti consiste nel considerarli come farmaci capaci di attenuare i sintomi delle malattie e dei disturbi mentali, favorendo un’eventuale psicoterapia, o almeno una convivenza con la malattia mentale. A questo proposito è bene ricordare che non conosciamo al momento le cause precise dei disturbi psichici: ipotizziamo ragionevolmente che siano patologie multifattoriali con coinvolgimento di aspetti biologici, psicologici e socio-ambientali. Gli psicofarmaci, pertanto, non curano in senso stretto, ma riducono i sintomi di patologie più o meno gravi con un’azione estremamente complessa. Se dovessimo paragonarli ad altre classi di farmaci, il loro funzionamento assomiglia più a quello degli analgesici che a quello degli antibiotici. Queste molecole, infatti, agiscono sui recettori dei neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale, molecole con le quali le cellule nervose – i neuroni – comunicano tra di loro. Gli psicofarmaci sono in grado di modificare l’attività dei neurotrasmettitori, potenziando o riducendo l’azione di molecole come serotonina, dopamina, acetilcolina, GABA, noradrenalina. Per esempio, gli antipsicotici agiscono soprattutto sulla dopamina, ma anche sull’acetilcolina e sulla serotonina, le benzodiazepine sul GABA, gli ultimi antidepressivi su serotonina e noradrenalina. Ciascun neurotrasmettitore a sua volta controlla e modula, con svariate vie neuronali, tutta una serie di funzioni, legate a comportamenti volontari e involontari, tono dell’umore, attenzione, apprendimento, e così via.

Gli psicofarmaci di cui oggi disponiamo non sono assolutamente selettivi, potenziano o deprimono tutta l’attività di uno o più neurotrasmettitori, dunque presentano una molteplicità di effetti collaterali, poiché non agiscono – come sarebbe auspicabile – esclusivamente a livello delle alterazioni biologiche del disturbo. Nonostante questi limiti, agli psicofarmaci va riconosciuto il grande merito storico di aver permesso la limitazione o l’abolizione di forme di trattamento della malattia psichiatrica come la lobotomia e l’elettroshock e – in parte – la chiusura dei manicomi.(2008)