La biografia di Franco Basaglia in un certo senso riassume l’evoluzione della psichiatria del ‘900. Dopo la laurea in Medicina all’Università di Padova Basaglia, brillante neolaureato, entrò nel gruppo accademico della neurologia che praticava l’elettroshock (o terapia elettro-convulsivante, TEC). Basaglia conobbe per esperienza diretta la psichiatria biologica, la psichiatria della lobotomia e dell’elettroshock, del manicomio come istituzione totale. Gli anni successivi videro Basaglia prendere le distanze dall’ambiente accademico per avvicinarsi agli autori che in quel periodo criticavano la psichiatria manicomiale e l’ideologia che la sosteneva; Basaglia si avvicinò a Michel Foucault, Thomas Szasz e agli esponenti della corrente filosofica dell’esistenzialismo. Dopo alcuni soggiorni all’estero – in uno dei quali visitò la comunità terapeutica dello psichiatra inglese Maxwell Jones – Basaglia avviò nel 1962 a Gorizia, insieme ad Antonio Slavich, la prima esperienza anti-istituzionale per la cura dei malati di mente; a Gorizia furono banditi tutti i tipi di contenzione fisica e l’elettroshock, furono aperti i cancelli dei reparti; insieme alle terapie farmacologiche, i pazienti ebbero anche rapporti umani con il personale. Il messaggio era chiaro: i pazienti dovevano essere trattati come persone in crisi. Nel 1968 Basaglia raccontò al grande pubblico l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, pubblicando un testo fondamentale, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, L’anno dopo lasciò Gorizia e, dopo due anni a Parma nel 1971 fu nominato direttore del manicomio di Trieste, dove portò avanti e ampliò il progetto nato a Gorizia: a Trieste furono istituiti laboratori di pittura e di teatro e una cooperativa di lavoro per i pazienti, con la quale svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. L’esperienza triestina rafforzò in Basaglia la convinzione che i manicomi andassero chiusi per essere sostituiti da una rete di servizi esterni, capaci di provvedere all’assistenza della persone affette da disturbi mentali.

Per Basaglia la psichiatria non aveva compreso i sintomi della malattia mentale e si stava prestando a giocare un ruolo ideologico – non scientifico – nel processo di esclusione del “malato mentale“.  Nel 1973 Trieste fu scelta come “zona pilota” per l’Italia nella ricerca dell’OMS sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia ed altri psichiatri diedero vita a Psichiatria Democratica. Movimento per il superamento dei manicomi, nato soprattutto per collegare le diverse esperienze di modifica radicale dell’assistenza psichiatrica presenti a Gorizia, Perugia, Nocera e in altre realtà (due anni dopo Giulio Maccacaro darà vita a Medicina Democratica. Movimento di lotta per la Salute, che riprenderà – sul versante della salute operaia sui luoghi di lavoro – la stessa lotta di Psichiatria Democratica nei confronti della scienza al servizio del potere). Nel 1976 avevo 18 anni ed ero da poco iscritto a Medicina Democratica. A settembre si tenne ad Arezzo il primo congresso nazionale di Psichiatria Democratica, che io segui attraverso i Fogli di informazione, la rivista diretta da Paolo Tranchino e Agostino Pirella che ha pubblicato, in 35 anni di vita, oltre 200 fascicoli.  Nel gennaio 1977 arrivò il clamoroso annuncio della chiusura del manicomio di Trieste entro l’anno. L’anno successivo, il 13 Maggio 1978, il Parlamento italiano approvò la Legge 180 di riforma psichiatrica che aboliva la vecchia legge del 1904 e raccoglieva le più importanti indicazioni di Basaglia e di Psichiatria Democratica. Nel 1979 Basaglia lasciò la direzione di Trieste e si trasferì a Roma, per coordinare i servizi psichiatrici del Lazio, ma  un tumore al cervello in pochi mesi lo portò alla morte, nella sua casa di Venezia.

A distanza di 40 anni, benché sia stata più volte oggetto di discussione e di tentativi di revisione, la Legge 180 è ancora la legge quadro che regola l’assistenza psichiatrica in Italia. Grazie a questa legge è stato possibile chiudere gli ospedali psichiatrici, restituire dignità ai malati, non più identificati con la loro malattia, favorire l’adozione di atteggiamenti più umani da parte di infermieri e medici. La Legge 180 ha messo definitivamente fuori legge un’istituzione come il manicomio che – senza alcuna giustificazione scientifica –  aveva il solo compito di segregare e isolare la diversità che la società decideva di rimuovere e allontanare. Non è poco. Per questo è importante che i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) non ripropongano oggi i vecchi modelli di contenzione, rischiando – come ha scritto lo psichiatra Paolo Cipriano in due libri – di ricreare dei piccoli manicomi. Secondo Cipriano “Dei 323 servizi diffusi nel territorio nazionale, l’80% è a porte chiuse, ha finestre con le sbarre e utilizza le fasce. Le terapie farmacologiche spesso vengono somministrate per ridurre il paziente in uno stato agonico. Oggi si lega con disinvoltura, come se fosse un gesto normale. Però non se parla”. Eppure in Italia esistono modelli virtuosi come Trieste, Novara, Merano, Pistoia ed altre realtà nelle quali vengono svolte attività domiciliari, oltre alla prevenzione, perché – come rileva Cipriano – i pazienti psichiatrici non hanno bisogno solo di farmaci, ma anche di case, lavoro e relazioni umane (nella foto Salvador Dalì, Tentazione di Sant’Antonio 1946).