Pallavolo e dinamiche di gruppo
La pallavolo – a 120 anni dalla sua nascita – è oggi uno dei giochi di squadra più diffusi nel mondo; in particolare è lo sport più praticato nelle scuole ed è la disciplina più seguita dalle donne; pur con tutte le modifiche apportate nel corso degli anni, rimane sostanzialmente un gioco sportivo di squadra con grande capacità formativa a livello fisico e mentale; per giocare a volley sono servono, infatti, la massima concentrazione, la disponibilità ad imparare le tecniche e gli schemi di gioco, un grande senso del collettivo e della prevalenza degli obiettivi di squadra su quelli individuali. Un aspetto da non sottovalutare è che in nessun altro sport di squadra – tranne forse nel poco conosciuto korfball – è possibile un confronto di genere come nella pallavolo; l’assenza di contatto fisico, infatti, permette alle donne, mediamente meno prestanti fisicamente, di competere con successo con gli uomini grazie alle maggiori doti tecniche. Le partite miste di volley – in genere 3 maschi e 3 femmine – sono altamente spettacolari, con gli uomini che attaccano e murano meglio, le donne che ricevono e difendono molto meglio; la possibile presenza di entrambi i generi rende la pallavolo particolarmente adatta al discorso riabilitativo, in quanto non genera esclusione e costringe la psicologia maschile al confronto con quella femminile. Per tutte queste caratteristiche, la pallavolo è uno sport adatto sia all’età evolutiva sia ai percorsi di recupero e reinserimento. L’importante è non avere grandi aspettative nei periodi iniziali, lasciando a chi si sta avvicinando alla disciplina il tempo di cambiare il loro vecchio modo di vedere il mondo e lo sport.
Trasformare un gruppo di individui in una squadra richiede sempre del tempo e a volte si possono osservare in sequenza i cinque stadi del modello di Bruce Tuckman. Il professor Tuckman insegnava psicologia educativa alla Ohio State University e nel 1965 propose un modello di evoluzione delle relazioni e dei rapporti di gruppo, pensato non per lo sport, ma per gli ambienti di lavoro. Di fatto, tutti i gruppi hanno le stesse dinamiche e il suo modello è diventato un punto di riferimento per il lavoro nei gruppi sportivi. Nel primo stadio (“forming”) si familiarizza e si impara a sentirsi parte del gruppo, si valutano forza e debolezza di ciascun membro e l’attenzione che l’allenatore riserva a ciascuno elemento. Nella fase successiva (“storming”) trovano spazio atteggiamenti di resistenza e conflitto con le richieste e gli obiettivi in gioco; è la fase più difficile nella costruzione del gruppo, un’eccessiva conflittualità può impedire il proseguimento del cammino, serve una comunicazione aperta e attenta per poter arrivare al terzo stadio (“norming”) in cui l’atteggiamento ostile e di resistenza viene progressivamente sostituito dalla cooperazione e dalla solidarietà; il gruppo comincia a lavorare per un obiettivo comune e l’allenatore deve sottolineare sia l’impegno dei singoli sia i miglioramenti del gioco di squadra. Quando si riesce a creare un gruppo che sappia lavorare e divertirsi, che sappia distinguere i successi sul piano del risultato sportivo – non sempre possibili – da quelli sul piano della crescita atletica e personale, allora lo sport diventa compiutamente una terapia, anche per chi allena. Il quarto stadio (“performing”) è tutto in discesa: il gruppo è in grado di eliminare competizione ed aggressività verso i compagni, rivolgendole agli avversari; paradossalmente, è pronto per sciogliersi (“adjourning”), dato che tutti sentono di aver completato il loro compito e sono pronti per nuove iniziative nuovi traguardi, non necessariamente in campo sportivo. Il modello di Tuckman ci dice che i gruppi non sono semplici insiemi di persone che lavorano insieme. Nei gruppi si vive e si cresce, si discute, ci si scontra e ci si migliora. Ogni gruppo ha dinamiche ben precise e chi vi lavora come allenatore deve conoscerle bene.
Per la comunità nella quale lavoro dal 1990 il confronto con altri gruppi si è orientato all’inizio verso il mondo della scuola, poi si è spostato sui gruppi sportivi di altre comunità e dei Dipartimenti di Salute Mentale. Con l’emergere in ultimi questi anni di decine di squadre amatoriali miste, il confronto all’esterno si è naturalmente e progressivamente spostato verso questi gruppi. Giocare contro e con persone “normali” ha molti vantaggi. Intanto, aiuta ad uscire dalla dimensione istituzionale, quasi sempre piuttosto rigida. Poi, permette il confronto con modelli di adulti in genere soddisfatti della propria vita, alla ricerca di un piacere sano senza effetti collaterali. Infine, crea occasioni di conoscenza, che a volte diventano anche amicizie o possibilità di lavoro. Con l’aiuto fondamentale di Mauro Scimia, Presidente dell’ASD Volley Ladispoli, in questi ultimi anni è stato possibile organizzare una collaborazione concreta che ha prodotto sia inserimenti dei nostri utenti nelle squadre della società tirrenica sia organizzazione comune di tornei con formazioni del mondo amatoriale. L’epilogo di questo lungo percorso è ben rappresentato da Roberto P, un nostro utente che – dopo un anno di pallavolo amatoriale con Fratello Sole – è stato inserito come titolare nella squadra maschile dell’ASD Ladispoli che ha vinto il campionato di II Divisione; alla fine del Torneo gli abbiamo dato una targa con queste parole. “A Roberto per i tanti “salti” compiuti, nello sport e nella vita”. La sua bella storia racconta – modo semplice e chiaro- che il lavoro e l’impegno pagano sempre, nello sport e, soprattutto, nella vita. (2018)
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