L’abbandono nello sport giovanile trova pochissimo spazio nel dibattito sulle future generazioni. Eppure, insieme all’abbandono scolastico, rappresenta un importante campanello d’allarme. Spesso al posto di abbandono si usa il termine inglese drop-out, che significa letteralmente “cader fuori”: i tanti ragazzi e ragazze che abbandonano gli studi o le attività sportive, infatti in qualche modo subiscono una “caduta” che li costringe a rimanere “fuori” dalle aule e dagli impianti sportivi. Tutti loro rappresentano un evidente fallimento delle cosiddette agenzie educative, scuola, famiglia e società sportive. I dati dell’abbandono scolastico sono abbastanza precisi, molto meno quelli relativi all’abbandono sportivo. In Italia il tasso di abbandono scolastico è intorno al 17 %, ovvero quasi un adolescente su 6 non completa il su percorso formativo. Per l’abbandono sportivo abbiamo a disposizione alcune ricerche svolte sia negli USA che in Europa e da esse risulterebbe che quasi il 70% dei bambini che cominciano la pratica di uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), la abbandona entro i 12-13 anni di età. Vediamo alcune possibili spiegazioni di un fenomeno così eclatante.

Il primo dato da sottolineare si riferisce all’utilizzo prevalente di alcuni termini nello sport. Nelle cronache sportive i binomi successo/vittoria, sconfitta/fallimento ricorrono continuamente e sono usati come sinonimi, pur non avendo lo stesso significato. Soprattutto nello sport giovanile, la mancata distinzione tra il risultato sportivo in sé – la vittoria o la sconfitta sul campo – e il contesto nel quale è avvenuto, con tutti i fattori che lo hanno determinato, sembra particolarmente fuorviante e pericoloso. Tutti gli allenatori dei settori giovanili dovrebbero avere ben presente questa importante distinzione. Un secondo ordine di problemi riguarda la dimensione esasperata dell’agonismo presente in molti gruppi sportivi, anche in quelli formati da giovanissimi. Troppi allenatori sembrano svolgere la loro attività soprattutto nella speranza di scoprire il campione in erba, preoccupandosi poco o niente di tutti quei ragazzi che a dodici, tredici anni già abbandonano, spesso in modo definitivo, uno sport in cui per loro non c’è spazio. Il terzo aspetto critico riguarda le figure adulte di riferimento. Spesso allenatori e genitori esercitano pressioni esagerate sulle prestazioni dei ragazzi, i quali, schiacciati dalle troppe attese nei loro confronti, possono trovare preferibile la rinuncia.

Le enormi potenzialità educative dello sport, quindi, non si realizzano mai in modo automatico. Se è vero che lo sport contiene valori, norme e schemi comportamentali di valore educativo altissimo, è altrettanto vero che le diverse figure adulte che organizzano e gestiscono lo sport – i genitori, gli allenatori, i professori di educazione fisica, i dirigenti sportivi – possono quasi annullare questo potenziale (nella foto Football di Aleksey Solodovnikov, 1979)