Cibo nell’arte, dal ‘500 a oggi
Cibo nell’arte. Abbiamo visto la svolta in senso naturalistico della pittura olandese e fiamminga del ‘500, legata al movimento della riforma protestante. L’olandese Pieter Bruegel il Vecchio è sicuramente uno dei grandi della pittura cinquecentesca; una delle sue opere più significative è il “Matrimonio contadino” del 1568. Si tratta di un vero e proprio affresco storico con scene di vita reale: delle nozze contadine con brocche di vino rosso, scodelle di polenta, pasticci d’avena. Le zuppe di cereali erano evidentemente il massimo che due persone umili avevano allora a disposizione e potevano offrire ai loro invitati. In ogni caso, nel quadro di Bruegel gli alimenti sono i protagonisti assoluti dell’opera.
Insieme a tanti pittori fiamminghi in questo filone di pittura naturalistica si inserisce un artista italiano, il cremonese Vincenzo Campi, con una serie di dipinti dedicati al cibo, in particolare “La fruttivendola” del 1580 e “La pollivendola”. Tra le opere di fine 1500 va, inoltre, accennato a una serie notevole di dipinti del tedesco George Flegel, con vivide descrizioni del cibo del tempo: frutta fresca e secca, biscotti e dolci, bevande e pane. Un dipinto caratteristico è, infine, “Il mangiafagioli” del bolognese Annibale Carracci (1584) che ritrae – senza intenti ironici – la scena quotidiana di un contadino che mangia una zuppa di fagioli, con in primo piano anche del pane, dei porri e una brocca di vino. Di tutt’altro genere sono, invece, le opere del milanese Giuseppe Arcimboldi, capace di costruire con qualunque tipo di alimento teste antropomorfe. Tra i suoi quadri, conosciutissimi dal grande pubblico segnaliamo “L’imperatore Rodolfo II in veste di Vertumno” del 1591.
A simbolo della pittura sul cibo del ‘600 possiamo prendere un famoso dipinto dell’olandese Jan Vermeer. “La lattaia” (1660) raffigura un donna che sta versando del latte con una brocca all’interno di una ciotola; sul piano di lavoro della lattaia Vermeer dipinge anche una piccola natura morta con del pane spezzato, un cestino pieno di pagnotte e un contenitore per il latte. Nelle successive nature morte fiamminghe dell’età barocca saranno moltissime le tele con trionfi di frutta e selvaggina pieni di cibi arrivati dal nuovo mondo: caffè e cioccolato, pomodori e peperoni.
Dal barocco seicentesco arriviamo all’Ottocento. Due opere francesi significative sono “La colazione sull’erba” di Edouard Manet del 1863, efficace raffigurazione della borghesia, classe emergente del tempo, e “Il mercato del 4 stagioni” della pittrice Louise Maria Schryves, che rappresenta, invece, un’altra classe sociale, gli umili venditori di verdure del mercato.
Nel ‘900 entrano nell’arte sul cibo anche i disturbi alimentari. Da un lato abbiamo le figure scarne – al limite dell’anoressia – dell’austriaco Egon Schiele, dall’altro i personaggi dilatati e senza ombre (con forte richiamo all’obesità dei nostri giorni) del colombiano Fernando Botero. Anche la contrapposizione dei modelli alimentari novecenteschi ha trovato ampio spazio nella pittura. L’opera “Zuppa Campbell” dello statunitense Andy Warhol (1962) è un buon esempio della globalizzazione alimentare iniziata nel dopoguerra, con l’omologazione dei gusti in tristi fast-food e in misere imitazioni dei cibi veri. Al cibo industriale inscatolato e privato di nutrienti e sapori, possiamo contrapporre il dipinto “Vucciria” (1974) del siciliano Renato Guttuso. Lo storico mercato di Palermo è raffigurato attraverso un trionfo di colori, odori e sapori, con la tela riempita completamente da passanti e venditori – stretti in pochissimo spazio – pesci spada e carni appese ai ganci, uova e formaggi, frutta e verdure. Uno spot perfetto della cucina meridionale e della cucina mediterranea in generale.
In definitiva – nel corso dei secoli – l’arte ci ha raccontato la società con la lente del cibo, della cucina, dei luoghi conviviali. Secondo l’antropologo Marino Niola “la civiltà stessa è una sorta di cucina. Perché strappa gli umani alla loro naturalità nuda e cruda e li trasforma, li rende coltivati”. “Non a caso – conclude Niola – le parole coltura e cultura hanno lo stesso significato.” Come a dire: chi ama la cultura, ama il cibo che dalle colture proviene. (3-2015)
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