Epigenetica e nutrizione
Nel 1953, grazie alle fondamentali immagini da diffrazione a raggi X realizzate dalla cristallografa inglese Rosalind Franklin, il biologo statunitense James Watson e il biofisico britannico Francis Crick presentarono, sulla rivista Nature, il primo modello accurato della struttura del DNA, il famoso modello a doppia elica. Quattro anni dopo, nel 1958, Francis Crick usò per la prima volta l’espressione dogma centrale della biologia molecolare, per fissare le relazioni tra DNA, RNA e proteine. Nel dogma centrale il flusso dell’informazione genetica va in una sola direzione: parte dal DNA per arrivare – attraverso l’RNA – alle proteine, senza considerare un percorso inverso e senza alcun intervento dell’ambiente. Con il dogma centrale ha inizio – in biologia e in medicina – il determinismo genetico, che prevede un primato assoluto del DNA e sarà alla base del progetto Genoma umano degli anni ’90. Per molti anni quasi nessuno ha messo in dubbio il fatto che i geni controllassero tutta la nostra biologia: si pensava, pertanto, che la scoperta e la mappatura dell’intero genoma avrebbero permesso di controllare lo sviluppo dell’organismo umano, eliminando caratteri dannosi e potenziando quelli favorevoli. Le cose, però, non sono andate esattamente così ed oggi le due branche più promettenti della biologia sono la biologia evolutiva dello sviluppo (conosciuta anche come Evo-devo) e l’epigenetica, che trovano un forte punto di contatto nell’attribuire grande importanza all’ambiente. Nella biologia moderna il dogma centrale appare superato; il flusso di informazioni parte dai segnali ambientali e va alle proteine regolatrici (istoni) e da queste al DNA e alle proteine (della sintesi proteica), con un percorso sempre bidirezionale. Medicina e biologia hanno trascurano per troppi anni il ruolo chiave dell’ambiente nello sviluppo dell’organismo e nella comparsa delle malattie. Oggi sappiamo che meno del 2% del codice genetico è codificante, il restante 98% non viene mai utilizzato, rimane ad uno stato potenziale. Ciò significa che quanto scritto nel codice genetico non è necessariamente tradotto in proteine e che l’ambiente influenza l’espressione di quel 2%. Da dove viene questa sottovalutazione dell’ambiente in favore dei geni? Sul ruolo dell’ambiente nei meccanismi evolutivi Darwin stesso fece una parziale autocritica scrivendo: “A mio parere, il più grande errore che ho commesso è stato non aver dato sufficiente peso all’azione diretta dell’ambiente: il nutrimento, il clima, e così via, indipendentemente dalla selezione naturale... Quanto scrissi l’Origine, e per molti anni a seguire, non trovai che scarsissime prove dell’azione diretta dell’ambiente, ora invece sono numerose.” (1876, lettera a Moritz Wagner). La stessa epigenetica ha impiegato almeno 30 anni prima di affermarsi, se è vero che il termine epigenetica risale agli anni ’40, quando il biologo inglese Conrad Hal Waddington la definì “la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto“.
Gli studi epigenetici degli ultimi anni ci dicono che l’ambiente – attraverso l’alimentazione, lo stress ed altri stimoli – modifica in modo reversibile ma ereditabile l’espressione dei geni. Tradotto in termini più accessibili, una condizione di stress alimentare può determinare una maggior metilazione di una base azotata del DNA (il metile è un piccolo gruppo chimico –CH3); le parti del DNA che ricevono questi metili vengono “spente”, ossia non possono essere lette per dare proteine. Pertanto, da uno stimolo ambientale (il cibo scarso), abbiamo una modifica epigenetica – spegnimento o accensione – del DNA. La struttura del DNA – costituita dalla sequenza di basi azotate – rimane la stessa ma cambia il modo in cui il DNA si esprime, dando o meno le istruzioni per costruire proteine nella sintesi proteica. Oltre alla metilazione altri meccanismi epigenetici ben conosciuti e studiati sono le modifiche (acetilazioni) delle proteine istoniche, la produzione di micro RNA non codificante capace di bloccare l’RNA e l’impacchettamento del DNA intorno alle proteine istoniche con addensamento della cromatina.
L’epigenetica della nutrizione sta studiando in particolare come l’alimentazione materna possa influenzare la vulnerabilità della prole all’obesità e al diabete. Lo studio più noto è quello che si riferisce al cosiddetto inverno della carestia in Olanda, nel 1944. Alla fine della seconda guerra mondiale l’esercito tedesco aveva bloccato l’accesso ai rifornimenti in una parte dell’Olanda occupata: complice un inverno durissimo, una parte della popolazione – comprese le donne olandesi gravide – dovette limitarsi ad un dieta di appena 500 calorie (un quarto di quanto necessario). Questa situazione di malnutrizione ben definita nel tempo è stata oggetto di studio per valutarne le conseguenze sui discendenti. Si è visto che i figli nati da donne incinte durante il periodo della carestia, da adulti avevano un rischio molto superiore di malattie cardiovascolari, diabete e pressione alta. Con meccanismi epigenetici la fame patita dalle mamme ha alterato in modo reversibile l’espressione del DNA dei loro figli; venuta meno la malnutrizione, è mancata anche l’alterazione epigenetica e la generazione successiva è tornata alla normalità, confermando la doppia natura delle modifiche epigenetiche: ereditabili e reversibili. Nei prossimi anni l’epigenetica ci aiuterà a capire come l’ambiente – nel senso ampio di cibo, esposizione a fumo, agli interferenti endocrini e ad altre molecole – influenzi la nostra salute e la nostra vulnerabilità alle malattie. Per il momento arrivano sempre più evidenze dal ruolo epigenetico dell’obesità. Nello studio danese del 2015, pubblicato su Cell Metabolism, il sovrappeso dei padri al momento del concepimento ha prodotto spermatozoi con modifiche epigenetiche relative al rischio di sviluppare obesità, malattie cardiovascolari e metaboliche: anche l’epigenetica ci sta dicendo quanto sia importante che ciò che mangiamo.
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