Riti di passaggio
Per l’antropologia culturale è possibile capire le diverse culture umane solo partendo dalla incompletezza biologica della nostra specie. Con le sue limitate risorse biologiche, infatti, l’uomo non sarebbe in grado di affrontare le sfide dell’ambiente, ma nemmeno di organizzare il suo rapporto con la realtà. Tutte le culture, pertanto, si preoccupano di plasmare i propri membri in una forma specifica, attraverso dispositivi come i rituali o i sistemi educativi.
I riti di passaggio hanno sempre avuto la massima importanza nelle società del passato e in quelle tradizionali, poiché rappresentano la preparazione al ruolo che da adulti si dovrà assumere nella società. Sono spesso caratterizzati dalla metafora del viaggio, un viaggio capace di collegare le cose conosciute con quelle ancora da conoscere. In molte popolazioni di interesse etnologico il periodo della pubertà è oggetto di attenzioni particolari; la pubertà, infatti, segna l’inizio della maturità fisica, sociale e psicologica della persona, ma rappresenta anche un fatto collettivo e riguarda quindi la comunità in cui l’adolescente vive. Questo spiega come i problemi legati alla pubertà siano oggetto di un’istituzione sociale, l’iniziazione, che segna il passaggio dalla vita infantile all’età adulta. Come tutti i riti di passaggio i riti di iniziazione sono suddivisibili in tre fasi distinte: la separazione, in cui si viene staccati – in modo simbolico – dalla famiglia o dal gruppo di appartenenza; il periodo del margine, in cui avviene la trasformazione dell’individuo, a volte con mutilazioni – come la circoncisione – tatuaggi o altre prove; infine, l’aggregazione alla comunità degli iniziati che ripristina la stabilità e nella quale ci si aspetta dall’iniziato il rispetto di precise norme etiche e culturali. I riti di trasformazione spesso assumono le forme simboliche di una morte seguita dalla rinascita, nella quale il neo iniziato si sottomette a pratiche purificatorie, osserva il silenzio o il digiuno, spesso assume un nuovo nome (a volte si comporta come un neonato, imparando a poco a poco a camminare, a parlare). Nella maggior parte dei casi l’iniziazione ha carattere collettivo, interessando tutti gli individui che abbiano raggiunto l’età idonea. Lo sviluppo individuale, pertanto, viene considerato un fatto non soggettivo ma sociale.
Nel mondo classico erano presenti forme di iniziazione all’età adulta, come l’assunzione della toga virile nell’antica Roma. Il carattere rituale del passaggio dall’infanzia all’età adulta si conserva anche in società complesse come quella indiana, nella quale il bambino è considerato fuori-casta fino alla celebrazione della sua assunzione nella casta cui la sua famiglia appartiene. Tra i Puebla del Nuovo Messico, invece, i ragazzi vengono fustigati a sangue – e le ferite sono così profonde da lasciare cicatrici permanenti – per poter accedere allo status di uomini adulti.
Anche nei riti di passaggio appare evidente la profonda differenza tra l’identità maschile e quella femminile. La femminilità, infatti, ha paletti chiari nel percorso di crescita: menarca, gravidanza, parto, allattamento. Lo sviluppo maschile è più indeterminato a livello biologico e, pertanto, deve essere fissato culturalmente. Esistono, comunque, notevoli eccezioni. Tra i Ba Nande della Nuova Guinea esiste un particolare rituale di iniziazione per la donna che scopre di essere incinta per la prima volta: vi partecipano solo le donne che mangiano, ridono, cantano e parlano male degli uomini. Un altro rito riservato alle sole donne è stato osservato presso i Navajo, il popolo nativo americano reso famoso dal fumetto western Tex (nella foto Lawrence Alma Tadema, Danza pirrica, 1869) (2010)
2008)
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