Speranza di vita nella storia (2)
Nella storia che ha portato la speranza di vita ai livelli moderni, il Seicento ha rappresentato un’importante novità: le grandi carestie e le epidemie di peste, che avevano caratterizzato e segnato i tre secoli precedenti, vennero meno; la mortalità, però, rimase alta per le cosiddette epidemie sociali, in cui alcune malattie infettive come il vaiolo e il tifo si diffondevano e uccidevano per le condizioni di malnutrizione e miseria di larga parte della popolazione europea. Durante il Settecento, la mortalità si stabilizzò, con le inevitabili enormi differenze tra chi nasceva in fondo alla scala sociale e i pochissimi che vivevano nella ricchezza. Nell’ultima parte dell’Ottocento la mortalità generale diminuì in alcune aree europee, ma non in quelle meridionali, come l’Italia. Agli inizi del secolo scorso nell’Europa meridionale la speranza di vita alla nascita era di poco superiore ai 45 anni; chi nasceva nel primo Novecento in Svezia, Norvegia o Danimarca, invece, poteva aspettarsi di vivere oltre i 50 anni, come oggi in Africa. Per tutto il Novecento la mortalità, in Occidente, ha continuato a scendere e la speranza di vita a salire, con tre importanti eccezioni: l’epidemia influenzale conosciuta come “spagnola” e, naturalmente, i periodi delle due guerre mondiali.
Dagli anni 50 a oggi non vi sono più stati ostacoli all’allungamento della vita media ed oggi stiamo probabilmente raggiungendo il limite biologico di longevità media della nostra specie (la longevità massima individuale è intorno ai 115-120 anni per le donne, 110-115 per gli uomini).
Sulle cause del declino della mortalità nel mondo occidentale il dibattito tra gli studiosi è ancora aperto. Sono stati identificati fattori generali quali il miglioramento negli standard di vita, dell’igiene e delle condizioni sanitarie, soprattutto con la diffusione di massa di detergenti, saponi e disinfettanti. Secondo l’epidemiologo inglese Thomas McKeown (L’aumento della popolazione nell’era moderna, 1979 Feltrinelli) la causa principale della riduzione della mortalità è stata il miglioramento delle condizioni di vita e il conseguente miglioramento nella nutrizione, che ha accresciuto la resistenza agli agenti e alle malattie infettive. Il fatto che oggi, in molte parti del mondo, si vive così a lungo – per McKeown – è dovuto soprattutto a tre fattori, assenti nel passato: distribuzione di reddito abbastanza “equa”, programmi di igiene pubblica (in particolare, potabilizzazione dell’acqua) e cibo accessibile – cioè acquistabile – da quasi tutta la popolazione. Meno disuguaglianze, più igiene, accesso generalizzato al cibo: ecco la spiegazione del raddoppio della speranza di vita in pochi decenni. La medicina – intesa come farmaci e cure di altro tipo – sembra aver avuto un ruolo marginale in questa transizione, diversamente dalle vaccinazioni, formidabili strumenti di igiene e sanità pubblica che hanno salvato – negli ultimi tre secoli – centinaia di milioni di vite. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno i vaccini salvano la vita a 3 milioni di bambini, per la sola prevenzione di 4 terribili malattie infettive: difterite, pertosse, morbillo e tetano. Il solo vaiolo, senza la vaccinazione, ogni anno farebbe nel mondo 5 milioni di vittime, tra bambini e adulti. Nel rapporto UNICEF “Vaccini salvavita” (4-2014) leggiamo che circa il 30% dei decessi infantili sotto i 5 anni potrebbe essere prevenuto con un vaccino. Dopo aver sconfitto il vaiolo con le vaccinazioni, oggi L’UNICEF vuole eliminare definitivamente la polio, una malattia rimasta endemica solo in Afghanistan, Nigeria e Pakistan. Nella Siria martoriata dalla guerra si sono recentemente registrati nuovi casi di polio, dopo 15 anni di assenza della malattia. La lezione che ci viene dal Paese mediorientale è chiara: le malattie infettive del passato sono state debellate ma possono sempre tornare, portando morte e disabilità, soprattutto nei bambini. (nella foto La prima vaccinazione di Edward Jenner nel 1796, Melingue Gaston, 1879) (11-2014)
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